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Cosa fece la banda della Uno bianca: 30 anni fa l’arresto dei fratelli Savi

Nella notte tra il 21 e il 22 novembre 1994 i suoi colleghi poliziotti arrestarono Roberto Savi, assistente in servizio alla centrale operativa della Questura di Bologna. Nei giorni seguenti, uno a uno, vennero bloccati gli altri componenti della banda della Uno Bianca. Il 24 novembre e il 26 novembre, Fabio e Alberto Savi, fratelli di Roberto, il primo camionista e l’altro poliziotto al Commissariato di Rimini; Fabio venne preso insieme all’allora sua giovane compagna romena, Eva Mikula (assolta da tutti gli episodi).

Il 25 Pietro Gugliotta, agente in servizio alla centrale operativa della Questura e poi la notte tra il 28 e il 29 Marino Occhipinti, vicesovrintendente della sezione narcotici della Squadra mobile, e Luca Vallicelli, agente scelto alla scuola della Polstrada di Cesena.

“Finì un incubo e se ne aprì un altro, emerse uno scenario pazzesco e iniziarono i processi che sono stati lunghissimi”, ricorda 30 anni dopo Alberto Capolungo, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime del gruppo criminale che in sette anni e mezzo uccise 23 persone e ne ferì 100.

“Terrorizzarono Bologna, la Romagna e le Marche. La gente ha continuato ad aver paura, a non fidarsi più della polizia, si creò un clima disastroso. Mi chiedono spesso se erano terroristi. Dal punto di vista politico non sono mai emersi elementi, ma il terrore, più che il lucro, è sembrato il loro obiettivo. Se dopo 30 anni dovessero uscire dal carcere, ci sono persone nell’associazione che avrebbero ancora paura. Ma questa paura non può esserci, ci vuole una reazione, una ribellione civile affinché cose del genere non succedano più”.

Tra gli ergastolani era stato scarcerato nel 2018 Occhipinti, ma una vicenda di maltrattamenti alla compagna, conclusa con patteggiamento, ha portato alla revoca del beneficio. Alberto Savi, detenuto in Veneto, da tempo usufruisce di permessi e prosegue il proprio percorso verso la riabilitazione.

I due capi, Roberto e Fabio, in carcere a Bollate, hanno invece sin qui sempre visto respinte le loro istanze. Da 30 anni non sono mai usciti di prigione. “Appresi della cattura di Roberto Savi lo stesso giorno che mia moglie mi disse di essere incinta”, racconta Capolungo, figlio di Pietro, l’ex carabiniere ucciso con Licia Ansaloni nell’assalto all’armeria di via Volturno a Bologna, il 2 maggio 1991.

“Fu un saliscendi di emozioni. Oggi mi sento di dire che quella cattura fu tardiva. Diversi elementi e spunti di indagine potevano far finire molto prima questa vicenda. Oltre alle responsabilità dirette dei criminali ci sono quelle di chi non ha visto per tempo, non ha capito bene, i processi sbagliati. Cose che fanno ancora imbestialire. Per troppo tempo non si è visto, si è ignorato. Un sacco di gente sapeva, mogli, colleghi, complici che escono e non parlano lo stesso”.

A Bologna, in seguito ad un esposto di alcuni familiari, è stato di recente aperto un nuovo fascicolo di indagine per concorso in omicidio volontario. Obiettivo dell’inchiesta, in corso, è far luce a distanza di decenni su eventuali mandanti, ulteriori complicità e coperture.
   

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